Rifugiati e integrazione lavorativa – lo stato della ricerca internazionale

da | Mar 26, 2021 | Progetto Espor

Una parte fondamentale di qualsiasi attività di ricerca o intervento riguarda l’analisi della letteratura scientifica disponibile sul tema in oggetto, e il progetto ESPOR certamente non ha risentito in questo senso di una scarsità di fonti cui attingere: il tema dell’integrazione professionale di migranti e richiedenti asilo, infatti, è argomento ben noto a una moltitudine di discipline afferenti sia alla sfera politico-economica (interessata principalmente a costi e benefici connessi all’ingresso sul mercato del lavoro di un gran numero di soggetti in età lavorativa), che a quella socio-psicologica, focalizzata sul benessere soggettivo connesso alle esperienze professionali, e alle caratteristiche individuali e contestuali rilevanti per facilitare, o ostacolare,  il successo nel mondo del lavoro.

Sebbene il tema dell’integrazione lavorativa di cittadini di origine straniera sia da lungo tempo oggetto di interesse per i ricercatori del sociale (si vedano gli studi sociologici di Park e Burgess dei primi anni ‘20), gli studi più rilevanti per la psicologia del lavoro contemporanea tema risalgono agli anni ’60 e ’70: domande fondamentali per i ricercatori di questo periodo sono l’identificazione delle caratteristiche individuali più influenti nel determinare il successo professionale, e le modalità adottate dai datori di lavoro nella selezione dei candidati

Rispetto alle caratteristiche individuali, la risposta classica è trovata, dagli studi di Becker (1975), Mincer (1958) e Bourdieu (1977), nel concetto di Capitale Umano: questo termine designa l’insieme di risorse (sia economiche che sociali, come ad esempio un network professionale) e capacità (sia professionali che “informali”, come il saper cercare le offerte disponibili o il sostenere con successo un colloquio di lavoro) proprie di un dato individuo. L’ammontare di capitale umano disponibile a un individuo non è chiaramente fisso, ma può aumentare (ad esempio, frequentando un corso di formazione/aggiornamento) o diminuire (ad esempio, perdendo il proprio network di contatti professionali a seguito di un trasferimento in un’altra città o Paese): assunto fondamentale delle teorie del Capitale Umano è che all’aumentare dello stesso aumentano anche le prospettive di carriera dell’individuo, e al contrario al suo diminuire le prospettive dell’individuo si riducono.

Per quanto concerne la selezione tra candidati, le teorie inerenti al processo di screening elaborate da Spence (1973) e Stigliz (1975) considerano fondamentale il concetto di signaling (lett., “invio di segnali”): poiché il datore di lavoro non ha modo di valutare, al momento della selezione, tutte le caratteristiche di un candidato, egli o ella dovrà affidarsi ad alcuni “segnali” indicanti caratteristiche funzionali alla posizione ricercata. Nel mondo del lavoro occidentale, questi “segnali” sono rappresentati dai titoli di studio, che indicano la presenza di qualità positive come la capacità di recepire e utilizzare efficacemente informazioni (in sistemi educativi “generalisti” quali l’Italia) oppure il possesso di competenze professionali specifiche (in sistemi “professionalizzanti” come la Germania).

Considerando queste due prospettive, è facile capire il considerevole svantaggio iniziale con cui un migrante deve confrontarsi all’ingresso nel mondo del lavoro: da un lato, egli avrà probabilmente un livello più basso di capitale umano (derivante dalla mancanza di contatti sociali e ridotta conoscenza del mercato del lavoro locale), e dall’altro i suoi titoli di studio costituiranno dei “segnali” meno informativi per i potenziali datori di lavoro, che difficilmente riusciranno a interpretarli in maniera efficace. Da ciò è ritenuto derivare uno svantaggio strutturale nei confronti dei soggetti migranti: a questo proposito, Portes e Zhou (1965) parlano letteralmente di un’assimilazione “segmentata” al mercato del lavoro. In altre parole, secondo gli autori, i lavoratori di origine straniera tenderanno a essere inseriti (o “assimilati”) dal mercato del lavoro nel Paese ospitate solo per alcune specifiche categorie professionali (“segmenti”), generalmente caratterizzati da ridotta desiderabilità, sicurezza, e remunerazione, poiché non avranno le risorse sufficienti per accedere e essere selezioni dai segmenti più elevati.

A questi approcci sono stati aggiunti più recentemente contributi di natura interazionista, come ad esempio la Career Construction Theory di Savickas (2005), maggiormente enfatizzanti, pertanto, l’importanza dell’interazione tra caratteristiche individuali e contestuali nel determinare il successo lavorativo: l’attenzione non è più rivolta esclusivamente ai singoli fattori ostacolanti o favorenti le prospettivo di impiego, ma alla capacità dell’individuo di fronteggiare e superare le possibili circostanze avverse di carriera.

Al contempo, nuove domande di ricerca sono sorte in merito alla particolare condizione di richiedente asilo: numerosi studi contemporanei evidenziano infatti come, al netto delle differenze in termini di capitale umano, titoli di studio, e ulteriori caratteristiche rilevanti, richiedenti asilo e rifugiati rappresentano comunque una categoria svantaggiata sul mercato del lavoro, nei confronti non solo dei lavoratovi originari del Paese ospitante, ma anche dei cosiddetti migranti economici – al punto tale che alcuni autori, come Philip Connor (2010) parlano di refugee gap”, letteralmente un “divario (in termini economici/di impiego) dei rifugiati”.

Fortunatamente, le più recenti evidenze mostrano come questo “gap” tenda a ridursi fino quasi a scomparire quando si considerano gli anni di permanenza nel Paese ospitante: in altre parole, quanto più tempo un rifugiato trascorre in Italia, tanto più le sue prospettive di carriera si avvicineranno a quelle di un migrante non richiedente asilo con le sue stesse caratteristiche: la sfida, per la ricerca attuale e futura, riguarda dunque identificare quali strumenti e attività risulteranno più efficaci nell’accorciare le tempistiche necessarie per assottigliare questo “gap”, e permettere una rapida e efficace transizione nel nuovo mercato del lavoro.

 Federico Brajda Bruno, Ricercatore

 

Bibliografia

Becker, G.S. (1975). Human Capital: A Theoretical and Empirical Analysis with Special Reference to Education. 2nd ed. New York, NY: Columbia University Press for the National Bureau of Economic Research.

Bourdieu, P. (1977). Outline of a theory of practice. Cambridge, UK: Cambridge University Press.

Connor, P. (2010). Explaining the refugee gap: Economic outcomes of refugees versus other immigrants. Journal of Refugee Studies, 23(3), 377–397.

Mincer, J. (1958). Investment in human capital and personal income, Journal of political economy, 66, 281-302.

Park, R.E., & Burgess, E.W. (1921). Introduction to the Science of Sociology. Chicago, IL: University of Chicago

Portes, A., & Zhou, M. (1993) The new second generation: Segmented assimilation and its variants among post-1965 immigrant youth. Annals of the American Academy of Political and Social Science, 530, 74-98.

Savickas, M.L. (2005). The theory and practice of career construction. In S.D. Brown & R.W. Lent (eds.), Career development and counseling: Putting theory and research to work (pp. 42-70). Hoboken, NJ: John Wiley & Sons.

Spence, M. (1973). Job Market Signaling. The Quarterly Journal of Economics, 87(3), 355–374

Stiglitz, J. (1975). The Theory of ’Screening’, Education, and the Distribution of Income. The American Economic Review, 65(3), 283-300